INTERESSANTE ANALISI DEL PROF. ORSI SUL LEGAME FRA BREXIT, TRUMP E LA FINE DELL'EURO
La grande controffensiva: la politica occidentale e le dinamiche dell’esclusione
Il presente saggio è stato pubblicato originariamente in inglese dal sito LSE Euro Crisis in the Press Blog. Traduzione di Andrea Muzzarelli.
Un recente articolo
firmato da Henry Radice sul blog LSE Euro Crisis in the Press individua
un legame fra diversi avvenimenti sulle due sponde dell’Atlantico,
ovvero fra le tattiche (o strategie?) politiche del premier britannico
Cameron, che hanno portato al referendum sull’uscita dall’Unione Europea
della Gran Bretagna, e l’ascesa di Donald Trump come candidato
repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti. Questo legame
consisterebbe nel crescente rancore covato dai cittadini inglesi e
americani, in una “cultura tossica di irresponsabilità politica”, sia
nell’incapacità di chiarire tanto il ruolo dell’UE nella politica
britannica quanto la posizione del Regno Unito nell’UE. Un insieme di
fattori, questo, che merita di essere approfondito.
L’autore del presente saggio, tecnicamente un cittadino europeo
(italiano) residente in Giappone, non ha chiaramente diritto di voto in
nessuno dei due paesi considerati e desidera rimanere il più neutrale
possibile, senza alcun interesse a schierarsi da una parte o dall’altra.
Nondimeno, esprimere un’opinione sulle tendenze emergenti nella
politica occidentale appare un esercizio legittimo per qualsiasi
occidentale: questo, e solo questo, è l’obiettivo di chi scrive.
Il referendum “Brexit”
In primo luogo, sarebbe ingeneroso attribuire la responsabilità
del referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea
esclusivamente al premier Cameron e alla sua inclinazione ad accettare
rischi notevoli pur di mantenere la propria posizione di potere – in
questo caso, servendosi di un referendum su una materia fondamentale per
il futuro del paese, in modo molto simile a quanto accaduto nel caso
scozzese. In tutto questo c’è del vero, ma occorre rilevare che le élite
britanniche – forse in misura superiore a quanto accade in qualsiasi
altra nazione dell’UE – conservano ancora notevoli capacità di analisi e
riflessione strategica. Anno dopo anno, diventa sempre più difficile
negare che la costruzione europea sia incorsa in problemi la cui natura,
dimensione, ed esiti possibili ben difficilmente possono indurre
all’ottimismo. L’Unione si è trasformata,
in maniera abbastanza drammatica, in qualcosa che, piuttosto
chiaramente, un gran numero di persone nel Regno Unito come negli altri
paesi europei non si è mai augurato di vedere, né certamente che
riflette il loro orientamento elettorale. È quindi inevitabile che la
domanda sull’opportunità di restare o meno all’interno dell’UE appaia
del tutto sensata rispetto alle opzioni strategiche per il futuro della
Gran Bretagna. Si potrà anche non essere d’accordo sul fatto che
il referendum sia il modo migliore di affrontare il problema, ma è
ammirevole che vi siano nazioni in cui i cittadini sono chiamati a
esprimere la propria volontà politica su temi così rilevanti,
soprattutto nei confronti di quei paesi nei quali l’appartenenza
all’Unione (insieme a un crescente numero di questioni politiche vitali)
è presentata al pubblico come “priva di alternative”.
Come quasi tutto ciò che ha a che fare con la politica, è certo
che il referendum Brexit è stato e sarà oggetto di speculazioni e
manipolazioni. Tuttavia, esso è l’espressione (per quanto inadeguata
poco rileva) di una scelta con la quale i cittadini britannici si devono
ora confrontare e il cui ulteriore rivio non appare più possibile. Ciò
può essere facilmente scorto nell’innegabile polarizzazione generata
dallo stesso referendum a livello popolare come a livello di élite. A
prescindere dall’esito, i costi e le opportunità saranno alti e
imprevedibili, in quanto essi dipenderanno dalla complessa dinamica dei
rapporti tra Regno Unito e UE.
Lo scontento americano: Trump e Sanders
Venendo alla scena politica statunitense, l’ascesa di un
personaggio come Donald Trump – a molti indigesto – può essere intesa
come il sintomo di un vasto movimento che, a prescindere dalle sorti del
milionario americano, non cesserà di esistere tanto presto. Di
particolare rilevanza è, ancor più di Trump stesso, la radicalizzazione
delle presidenziali espressa dal duo Trump-Sanders. Essi hanno molto in
comune – soprattutto il tentativo di intercettare un ampio malcontento e
di canalizzarlo verso un’interpretazione legata a specifiche narrative
di ciò che gli USA erano, sono, dovrebbero essere, e particularmente di
chi sia il nemico.
L’esistenza di un malcontento così esteso giunge per certi versi
quasi come una sorpresa, specie in considerazione della sua vastità.
Secondo una diffusa percezione,
gli Stati Uniti hanno del tutto superato la crisi del 2008: i dati
sulla disoccupazione si mantengono piuttosto bassi e l’economia sembra
continuare a crescere (anche se a un ritmo meno sostenuto rispetto agli
anni passati). I più ritengono che le politiche portate avanti
dall’amministrazione Obama abbiano raggiunto in sostanza i loro
obiettivi nel garantire tanto una buona stabilità economica (non
disgiunta da una certa attenzione alla “giustizia sociale”) quanto un
razionale riposizionamento degli impegni a livello internazionale.
Nonostante questo, l’ottimismo di Obama appare, internamente come
all’estero, sempre più isolato.
Da dove proviene tale malessere?
Sia Trump che Sanders hanno puntato il dito contro il lento ma costante
impoverimento del ceto medio, il declino delle opportunità economiche (e
non solo), il sentimento diffusa secondo il quale il futuro non sarà
migliore del presente o del passato. Molti Americani, inoltre,
percepiscono che le condizioni in cui si sono ritrovati a vivere negli
ultimi decenni ammontano a un ambiente socio-economico che non avrebbero
mai desiderato venti o trent’anni fa. Trump individua la causa di questi mai nel modo in cui l’America è stata “globalizzata”,
evidenziando le tante opportunità che hanno abbandonato gli USA per
avvantaggiare altri paesi come la Cina o il Messico, o sono andate in
buona parte a immigrati (clandestini). Questa posizione si estende alla
politica internazionale degli Stati Uniti e le loro scelte militari e
strategiche nell’era post-Guerra Fredda: spese eccessive, esiti spesso
dannosi per il paese, alleati “fuori controllo”, avventurismi senza
scopo soprattutto in Medio Oriente.
Le attenzioni di Sanders si sono invece focalizzate sui problemi
dell’ineguaglianza come risultato diretto della finanziarizzazione non
regolata dell’economia statunitense, un “gioco truccato” che funziona
soltanto per chi è già benestante. In definitiva, Sanders individua
nell’avidità la radice dei mali americani, una manifestazione di degrade
etico.
Il punto interessante è che entrambi – sebbene da angolazioni
diverse – hanno finito per sviluppare la loro posizione partendo da un
discorso di decadenza morale: Sanders la scorge nella mancanza di
empatia, di solidarietà sociale, e nella priorità accordata al denaro;
Trump nell’abbandono dei sentimenti patriottici e nella diffusione di
una debolezza morale che si riflette nel “politicamente corretto”,
l’altra faccia della medaglia della globalizzazione. In tutti e due i
casi si può intravedere la volontà di “revival” del sogno americano.
Trump sembra promettere il ritorno a un paese più prospero attraverso il
ripristino di un ordine morale appartenente al passato. Ciò che si
trova al centro della sua ascesa può essere concettualizzato come una
questione di politiche identitarie, o meglio come la reazione a un
eccesso di manipolazione dell’identità americana avvenute negli ultimi
decenni, una manipolazione tesa a rivedere i criteri di appartenenza
alla comunità politica americana, che si è spinta troppo lontano, è
durata troppo a lungo e ha cominciato a ritorcersi contro se stessa.
Nel caso di Sanders, invece, il recupero del sogno americano
passa per l’attuazione di politiche espressamente socialiste, partendo
dal presupposto che le menzionate politiche di manipolazione identiaria
non si siano spinte abbastanza in profondità.
Chi (non) è americano?
In entrambi i casi, le politiche identitarie si riferiscono in
modo più o meno esplicito a schemi di inclusione/esclusione che
dovrebbero rispondere a domande quali “Chi è americano?” (e quindi: “Chi
non lo è?”), “In cosa consiste realmente essere americani”? Per Trump,
riportare gli Stati Uniti a ciò che erano un tempo (make America great again) significa che il vero americano è colui che si identifica in una continuità con il passato o, meglio ancora, colui è tale
continuità. Questa definizione ha diversi corollari relativi
all’immigrazione, al multiculturalismo, alla religione e all’etnia in
genere, come molti critici
hanno evidenziato. Essa potrebbe tuttavia anche rappresentare la nemesi
di una certa narrativa che vorrebbe l’inclusione a tutti i costi,
secondo il principio inclusivo di una “società aperta”, che tale non è,
in quanto si basa sulla sistematica esclusione proprio di quelle masse
che hanno oggi trovato la propria voce (per quanto problematica e
inadeguata) in Trump. Almeno a partire dagli anni della presidenza
Clinton (che non a caso ha dato forma alle tesi poi divenute dominanti
sul “globale” e la “globalizzazione”) l’essere americani è stato
concettualizzato in questi termini: “Non importa chi sei o da dove
vieni, purché ci sia prosperità economica”. L’ascesa di Trump si
ricollega soprattutto al fallimento di questa politica identitaria e
delle sue basi rawlsiane perché, se da un lato il benessere economico
sta svanendo, dall’altro ci si comincia a chiedere: perché mai il “chi
sei e da dove vieni” non dovrebbe essere importante? Forse è importante
dopotutto. Paradossalmente, molti conservatori occidentali e l’emergente
movimento post-coloniale convergono proprio su questo punto. Ed è
proprio qui che si trova il nucleo centrale di un grande “riflusso”, di
una grande controffensiva.
Lo stesso Sanders, pur se con modalità del tutto diverse,
individua nuovi criteri di appartenenza, o una nuova gerarchia, laddove
il sogno della prosperità è riaffermato attraverso nuove logiche di
redistribuzione economica, un’economia della condivisione, una forte
etica fondata sull’empatia. Sanders ha attaccato Trump definendolo un
“uomo pericoloso” che, pur avendo correttamente intercettato un
innegabile quanto vasto malcontento, vuole cavalcare narrative distorte
della realtà e incanalare la rabbia collettiva verso le categorie
sociali sbagliate: non tanto verso i “ricchi”, coloro che incarnano la
decadenza morale da cui sono scaturiti i problemi odierni, quanto contro
gli immigrati, i musulmani e persino i Cinesi.
L’attacco di Sanders ai ricchi appare comunque problematico sotto
diversi aspetti. Consideriamo l’identità politica: se può definirsi
americano chiunque aderisca al sogno nella sua versione “globalizzata”,
allora diventare ricchi e ottenere tutto quello che si desidera non
rappresenta altro che la realizzazione di quel sogno: gli Americani
abbienti hanno semplicemente fatto ciò che la maggioranza si limita a
immaginare. Se la prosperità individuale non è (o non dovrebbe essere)
più al cuore dell’American Dream, cosa potrebbe prenderne il
posto? In altre parole: quale dovrebbe essere il punto dell’essere
americani? Ridefinire l’identità USA a partire da questi interrogativi
appare sin troppo difficile, anche solo considerando la tenacia dalle
fondamenta teologiche del progetto americano. Dopo tutto, gli USA sono
nati come la nuova Gerusalemme, la Terra Promessa dove scorrono latte e
miele, la terra dell’espansione economica senza fine.
Il potere di un tale ordine simbolico può difficilmente essere
sostituito dall’immaginario socialista che, nonostante stia cercando di
acquisire una dimensione teologica più esplicita (si pensi all’attuale
pontefice), rimane comunque legato a una concezione della politica
contro la quale gli Stati Uniti furono creati in prima istanza: elevato
prelievo fiscale, forte burocratizzazione, “big government”. Non bisogna
infine trascurare il fatto che gli USA sorsero come spazio di libertà
anche in virtù della loro separazione fisica dal vecchio mondo:
una separazione che è forse la maggiore garanzia di quella libertà. La
costruzione di muri non dovrebbe quindi essere, in un contesto del
genere, una sorpresa.
La dimensione economica
In una prospettiva economica, la posizione di Sanders risente dei
vecchi e dei nuovi problemi del socialismo: in particolare
l’impossibilità di redistribuire ciò che non viene precedencemente
prodotto – un problema che i vecchi regimi socialisti conoscevano sin
troppo bene. Rispetto al diciannovesimo secolo e alla prima metà del
ventesimo, molti degli odierni socialisti hanno abbandonato l’idea di
acquisire e gestire i processi produttivi perché hanno tristemente
scoperto di essere incapaci di amministrarli. Il socialismo odierno
rimane pertanto programmaticamente dipendente (per mezzo della
tassazione e, se necessario, di altre forme coercitive) da quei gruppi e
quegli individui in grado di gestire la produzione. Ciò genera una
dipendenza gerarchica che è in aperta contraddizione con il concetto
chiave illuminista dell’emancipazione: quell’uscita dallo “stato di
minorità” alla quale il socialismo ambisce, almeno in teoria, a
ricollegarsi.
Questo aspetto ha vaste e profonde conseguenze, dal momento che
il socialismo ha storicamente fallito nel produrre e riprodurre il
capitale umano e sociale necessari per portare a compimento la sua
missione storica. In risposta alla propria incapacità di gestire i
processi economici, il socialismo ha nel frattempo focalizzato la sua
narrativa sul “denaro” (l’unità con la quale si misura, ad esempio,
l’ineguaglianza) quando, nei fatti, la convertibilità in beni e servizi
(piuttosto che in asset finanziari) delle valute scambiate sui mercati
finanziari o quella delle banconote che si trovano nei portafogli dei
comuni cittadini è una questione molto diversa, purtroppo messa in ombra
da idee del tipo “QE per la gente”. Questa differenza è vera
soprattutto nel contesto odierno, in cui un sforzo di monetizzazione
globale di massa è portato avanti da otto anni consecutivi per evitare
il collasso del sistema monetario con un’immensa liquidità tenuta il più
lontano possibile dai mercati non-finanziari, dove potrebbe produrre
effetti devastanti. Inoltre, il fatto che “la gente lavora” non ci dice
molto sul valore economico intrinseco delle attività svolte. Una
semplice occhiata all’esplosione degli impieghi nel settore del
commercio al dettaglio, del resto, suggerisce una cattiva allocazione di
risorse umane su larga scala.
Sottrarre “denaro” ai “ricchi”, come ci dimostrano molti esempi
del passato, non migliorerà le condizioni economiche dei poveri perché
quel denaro ha significato economico solo in virtù della sua
concentrazione. La vera ricchezza di una società non risiede nel denaro,
ma nella costruzione di capitale sociale ed umano e, in particolare,
nella conoscenza diffusa, nel raffinamento, nella qualità delle
relazioni sociali e nella coesione – tutti fattori che necessitano di
sofisticati processi cognitivi di apprendimento sociale che possono
richiedere decenni (persino secoli) di lavoro ma che possono essere
distrutti in una sola generazione.
Trump ha il vantaggio di non essere obbligato ad articolare un
quadro di politiche economiche coerenti all’interno di una cornice
ideologica predeterminata, facendo leva invece sul suo personale
pragmatismo, che rispecchia una simmetrica domanda di pragmatismo
proveniente dal suo elettorato.
I rischi di un’eccessiva semplificazione
Detto questo, c’è sicuramente un legame tra la
finanziarizzazione, la crescita dell’ineguaglianza e la diffusione
endemica di lavori di basso profilo (uno dei meccanismi con i quali il
mondo occidentale sta distruggendo il proprio capitale umano e sociale).
La via d’uscita implica non solo una ridefinizione del sistema
economico che, innanzitutto, ridimensioni il ruolo delle attività
finanziarie, ma anche la necessità di una nuova divisione internazionale
del lavoro. Il fatto stesso che il sistema finanziario mondiale
continui a operare in modalità di emergenza dal 2008 è il migliore
indicatore del fatto che l’economia globale non funziona più e che, in
un modo o nell’altro, dovrà cambiare. Lo scopo e le dimensioni di una
tale “riforma” sono tuttavia troppo ampi e complessi perché si possa
verificare una transizione ordinata e concertata. Come suggerito da
Trump, lo scenario più probabile è che i singoli attori porteranno
avanti politiche indipendenti (come il ritorno al protezionismo)
fronteggiando rischi elevati e pagando i necessari costi, con
l’obiettivo di ricostruire sistemi economici nei quali la maggior parte
del ciclo investimento-produzione-consumo avrà luogo entro i confini.
Ciò garantirà un maggiore controllo politico dell’economia in
contrapposizione al modello “global” oggi dominante, il quale è divenuto
così complesso da non poter essere più controllato da nessuno, si è
rivelato nel frattempo estremamente instabile.
Questa mossa protezionista difficilmente rappresenterà una
panacea per gli odierni disagi economici e sociali. Non bisogna
dimenticare che la globalizzazione e la finanziarizzazione sono emerse
anche in risposta ai problemi posti dai modelli economici nazionali del
passato: è dunque verosimile che un ritorno a quei modelli ne riproduca
anche i già noti problemi. Il punto è che potrebbero esserci altre
ragioni (saturazione, barriere tecnologiche, cambiamenti demografici,
limiti ambientali) per le quali un’ulteriore, massiccia espansione del
sistema economico – nazionale o globale – non sia più praticabile. In
questa prospettiva, qualunque promessa di rivitalizzare il sogno
americano (da qualsiasi parte essa provenga) appare molto difficile da
mantenere. E questa considerazione andrebbe inscritta nel più generale
problema dell’insostenibilità intrinseca delle tesi sostenute da
ideologie politico-economiche moderniste di progresso tuttora
prevalenti.
A conclusione di questa parte sulla politica americana, è
importante cogliere il significato della forte polarizzazione in corso
nell’ambito delle presidenziali, il quale risiede in un vasto movimento
che contraddice la narrativa ottimistica tipica delle amministrazioni
che si sono avvicendate alla Casa Bianca dalla fine della Guerra fredda.
Un intero armamentario di idee e politiche, alcune delle quali
risalenti a molto prima degli anni Novanta, sta affrontando una crisi
che potrebbe anche non superare.
Un doloroso sguardo a ciò che resta dell’Europa
Il quadro sopra descritto presenta diverse similitudini con la
crisi politica dell’Unione Europea. Dopo il 1992 l’UE, così come le
politiche interne di molti dei singoli paesi appartenenti, fu
rimodellata secondo “linee americane”. Questo è ancora oggi
l’orientamento predominante, peraltro consolidato attraverso numerose
organizzazioni transatlantiche, fra coloro che cercano di costruire gli
“Stati Uniti d’Europa” e desiderano dare vita a una “identità europea”
fondata sui cosiddetti “valori europei”. Questa visione voleva (vuole
tuttora) superare l’idea di Europa come comunità di stati nazionali. La
si sarebbe potuta declinare in una qualche forma di federalismo (come ad
esempio prefigurato da Jürgen Habermas nel volume del 2001 Tempo di Passaggi)
che, considerata la complessità storico-culturale del Vecchio
Continente, si sarebbe dovuta collocare in una formulazione fortemente
decentralizzata nello spettro ideale di tutte le possibili forme
federative.
Di fatto, l’UE si è mossa nel
frattempo verso un velenoso miscuglio di iper-centralizzazione,
irresponsabilità politica e una visione del mondo autoreferenziale
rafforzata da una concezione puramente astratta, econometrica e
legalistica dei problemi politici: la prudenza è andata smarrita ed è
mancata la capacità sia di gestire le comunicazioni sia di ristrutturare
la propria immagine pubblica.
Negli ultimi anni, con una drastica accelerazione dopo il 2014,
l’establishment politico europeo (nella burocrazia UE e soprattutto in
Germania) sembra essere in preda a un vera e propria pulsione
autodistruttiva o Todestrieb freudiano. Questa pulsione è
particolarmente subdola nel suo orwelliano presentarsi come
“progressista”, “umanitaria” e “pacifista” categorie di pensiero ormai
diventate obbligatorie per tutti, e costituenti la controparte del
politicamente corretto americano, ma molto più pericolosa – specie se si
considerano le sue implicazioni strategiche e le si cala nell’attuale
contesto di grandi difficoltà geopolitiche.
Lo spensierato carattere del gran carnevale della cultura
dell’Occidente, celebrato alla fine degli anni Sessanta ma mai seguito
dalla Quaresima, è ormai divenuto grottesco.
Il ben noto meccanismo del group-think, per il quale
l’autocensura viene praticata per tutelare la propria posizione
all’interno di un gruppo prestabilito e rinforzarlo continuamente, ha
permesso di conquistare una notevole quanto storicamente rara omogeneità
intellettuale in Europa – sebbene nascosta dietro la facciata di
fazioni apparentemente opposte (neoliberali contro anticapitalisti,
tanto per citare la più celebrata). Meno evidenti sono gli effetti
collaterali prodotti da questo meccanismo di autocensura: in primo luogo
l’incapacità di superare lo stallo di un’integrazione europea rimasta a
metà del guado, di cui gli intellettuali sono consapevoli e che nel
lungo periodo condannerà queste posizioni e loro stessi all’irrilevanza o
peggio (come accadde agli accademici confuciani nella Cina di un secolo
fa); in secondo luogo, l’approccio sempre meno tollerante nei confronti
delle idee “fuori dal coro”, che porterà a una polarizzazione ancora
più aspra contro il dissenso politico (populismi, euroscetticismi ecc.) e
sfocerà nell’impossibilità di un dialogo fino alle eventuali, più
estreme conseguenze: violenza politica e guerra (totale).
Nonostante tutto, si potrebbe ancora guardare a tale costrutto
ideologico con un certo grado di ammirazione: in fondo, è una struttura
incredibilmente ben progettata. Se fosse stata permeata da idee
differenti, avrebbe potuto rivaleggiare con i più grandi imperi della
storia mondiale. Sfortunatamente, quelle idee sono in sostanza suicide e
garantiscono ciò che chiunque può ormai testimoniare: più l’Europa
avanza lungo questa traiettoria, più velocemente si disintegra. La
“crisi dei rifugiati”, in particolare, ha devastato il capitale politico
dell’Unione (per tacere di quello della classe dirigente tedesca).
L’establishment politico del cosiddetto “gruppo Visegrád” (Polonia,
Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) e delle altre nazioni
dell’Europa centrale e dei Baltico è sconcertato: hanno sofferto e
lavorato duramente per portare i loro paesi all’interno della grande
casa europea, che ora sta diventando la tomba dei popoli europei in nome
del grande nulla. Meno apertamente, molti membri dell’establishment
britannico hanno di certo compreso che c’è qualcosa di profondamente
sbagliato nella barca europea e nella rotta che essa si ostina a
seguire.
Traiettorie
Come negli Stati Uniti, la narrativa dominante della politica UE è
ormai sottoposta a un’enorme pressione – anche se in Europa la
questione si declina a livello nazionale, che è ancora la dimensione
privilegiata del dibattito politico. A
prescindere dagli esiti del referendum in Gran Bretagna, nel lungo
periodo il destino della costruzione europea (a meno che non si
verifichi una tanto spettacolare quanto improbabile inversione della
rotta sinora seguita) è segnato. E nella misura in cui un numero
crescente di europei tenterà di arrestare la “autoliquidazione” del
continente, la situazione potrebbe anche diventare tragica. Più il tempo
passa senza cambiamenti decisivi, maggiori saranno i danni inflitti
all’Europa e a qualsiasi forma alternativa di europeismo; in ogni
modo, sradicare le attuali narrative dominanti potrebbe richiedere
grandi sacrifici e ancor più grande coraggio. La tempesta che si sta
avvicinando è sostanzialmente impossibile da evitare.
Su entrambe le sponde dell’Atlantico si sta assistendo allo
sbriciolamento di strutture politiche e intellettuali fondamentali: non è
una coincidenza, ed è un fenomeno che non potrà essere risolto nel
breve termine. Anche se Trump e gli euroscettici dovessero fallire a
questo giro, il problema continuerà a riproporsi sotto forme diverse.
Perché è giunto il momento di un serio cambio di direzione.
*Roberto Orsi, Ph.D in Relazioni Internazionali presso la
London School of Economics, è membro della Security Studies Unit presso
il Policy Alternative Research Institute e Lecturer alla Graduate School
of Public Policy dell’Università di Tokyo.
http://lse.academia.edu/RobertoOrsi
INTERESSANTE ANALISI DEL PROF. ORSI SUL LEGAME FRA BREXIT, TRUMP E LA FINE DELL'EURO
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3 commenti:
Il Prof. Orsi ha scoperto l'acqua calda?
Doveva prendere posizione. Ci sarà brexit o non ci sarà prof. Orsi ???
Carlo
ahahaha è un professore ..non pensare che sia chissa' chi...era bella l'analisi...tutto qua...
mai fidarsi dei professori..ma studiare quello che dicono si..
Anche il discorso di Donaldo non è male https://youtu.be/1XS027KV4KI
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