GAOLIN E IL CIGNO BIANCO
La delocalizzazione produttiva è diventato, non da molto, anch’esso un concetto abbastanza chiaro e ben acquisito nell’occidente sviluppato, area in cui l’economia reale si sta riducendo complessivamente sempre di più. Ormai quasi ogni nostro cittadino si rende conto di quali disastri abbia già provocato e stia provocando ogni giorno di più, tanto che se ne parla ovunque e ognuno dice la sua.
Però, per quanto riguarda:
- le cause che la determinano,
- gli autori che la provocano o la realizzano o la gestiscono,
- le modalità attuative di questo/i processi,
- i colpevoli e i benemeriti di questi processi, a seconda da quale parte si sta,
- i beneficiari presunti e quelli veri,
- le conseguenze che comportano per le economie dei vari paesi,
sono aspetti del fenomeno su cui c’è molto da puntualizzare.
Nei nostri tempi, dove le informazioni possono passare da una parte altra del globo in tempo reale e dove gli spostamenti di persone, da un continente all’altro, si compiono in giornata è molto più facile di un tempo andare a produrre dove le condizioni di competitività complessiva delle varie aree del nostro globo sono migliori.
Detto ciò, è opinione comune che le aziende, che producono beni più o meno durevoli, non aspettino altro che di trovare un posto migliore presso cui spostarsi, ovvero di delocalizzare, per guadagnare di più.
Questo non è normalmente vero. A nessuno imprenditore fa piacere sobbarcarsi i costi, le fatiche e i rischi che il delocalizzare comporta. Normalmente un’impresa è un insieme di persone più o meno ampio, che si è organizzato in un certo luogo per realizzare un processo produttivo dove molto importanti sono le esperienze tecniche, acquisite in anni e anni di dedizione al lavoro di imprenditori e maestranze, che sono il vero patrimonio di ogni azienda.
Nessun imprenditore medio piccolo, che di solito considera la propria azienda una sua creatura, butta a mare tutto ciò se non spinto, o meglio costretto, da condizioni esterne che nel tempo rendono la sua azienda non competitiva nel mercato globalizzato. Di solito quindi la delocalizzazione avviene forzatamente, come male minore, pena la propria estinzione e con essa di tutta la cultura tecnologica acquisita in tanti decenni di duro lavoro di tante persone.
Diverso il caso delle multinazionali della produzione, grandi e piccole. In queste non c’è la figura dell’imprenditore perno della gestione della società, che invece avviene attraverso organismi societari e manager, che hanno l’unico obiettivo di fare profitto, preferibilmente nel breve termine per raggiungere target collegati a bonus a proprio favore. Le visioni, gli obiettivi di lungo termine sono spesso trascurati, rispetto quelli a breve.
Inoltre questi manager non sono legati al territorio, alla storia dell’azienda e quindi non hanno remore mentali e affettive che li possano frenare o deviare dall’obiettivo del profitto.
Ancora diverso e ben più decisivo è il caso delle multinazionali della distribuzione che si sono accaparrate la gran parte delle quote del mercato retail in tante parti del mondo. Queste realizzano il massimo profitto sì con una buona organizzazione della distribuzione e dell’approvvigionamento dei prodotti ma, soprattutto, minimizzando i costi di acquisto e massimizzando quelli di vendita. Ovvero comprare dove costa poco produrre e vendere nelle aree con elevata disponibilità di denaro e propensione al consumo. Per fare ciò hanno ormai miriadi di agenti a loro collegati, che girano tutte le aree del globo, per cercare il luogo dove c’è chi potrebbe produrre o andare a produrre qualcosa a un costo più basso di quanto fino ma quel momento conseguito.
Se si può indicare qualcuno come massimo colpevole o fautore delle delocalizzazioni, si può certamente affermare che proprio queste multinazionali sono in netta pole position. In pratica sono i consapevoli alleati dei paesi low-cost, allocati nelle aree dei paesi consumatori. La finanza poi, nel processo di delocalizzazione, gioca il suo ruolo classico a supporto dello stesso che, nello stesso tempo, è sia fondamentale che parassitario.
Ma perché conviene o si deve delocalizzare?
Credo che la risposta ce l’abbiano un po’ tutti. Si delocalizza perché ci sono aree del mondo dove il costo combinato della mano d’opera, più quello del sistema paese in cui si delocalizza, è nettamente inferiore a quello in cui ha sede l’azienda delocalizzante. Talmente inferiore da indurre ugualmente un’impresa a intraprendere questa difficile iniziativa, nonostante i costi e i rischi spesso prima non ben valutati.
Per nettamente si intende che il costo del lavoro è, a parità di valuta di riferimento, da 3 a 10 volte più basso fra un paese e un altro. Tanto più elevata è questa differenza, tanto più lontano si può andare a delocalizzare e tanto più altri fattori diventano meno determinanti. Ciò non vuol dire che un paese è 3 o 10 volte più povero, ovvero che la gente che ci abita gode di consumi che sono 3 o 10 volte più bassi.
Infatti non è per nulla così.
Ad esempio:
-in Cina il salario netto di un lavoratore del settore industria è sì di circa 200-250 EUR al mese nelle zone sviluppate ma i prezzi dei beni e servizi comprati dalle famiglie sono nel loro complesso 1/5 di quelli in Italia
- In Polonia il salario netto di un operaio è di circa 400-500 EUR/mese ma il costo della vita è meno della metà, sempre rispetto all’Italia. Lo stesso si può dire di molti paesi dell’est europeo non avanzato o del resto del mondo.
Insomma le parità monetarie, ovvero i cambi fra le valute, nascondono o distorcono lapercezione di questa realtà, fino ad arrivare all’assurdo del pensionato italiano che, percependo il minimo, vive nella miseria in Italia ma diventerebbe un benestante con gli stessi soldi se andasse ad abitare in Cina. Comunque, tornando alla delocalizzazione, qui bisogna considerare l’effetto dirompente e concomitante di 3 fenomeni che hanno facilitato enormemente questo processo:facilitato enormemente questo processo:
1. la grande modernizzazione dei trasporti, avvenuta negli ultimi 50-60 anni;
2. la straordinaria evoluzione e diffusione delle tecnologie delle telecomunicazioni e la conseguente rapidissima circolazione delle informazioni, in grado ormai di raggiungere in tempo reale ogni angolo del nostro mondo.
3. la liberalizzazione dei commerci internazionali secondo le regole del WTO, avvenuta senza in pratica stabilire per i paesi aderenti analoghe regole e comportamenti da rispettare in materia di libera circolazione dei capitali
I primi 2 possono essere considerati un vantaggio per tutti o meglio per coloro che sono stati più bravi di altri a sfruttarli al meglio ma il terzo, che è il più importante, è andato a vantaggio solo dei paesi la cui classe politica ha capito bene l’enorme vantaggio che una nazione gode, per quanto riguarda lo sviluppo della propria economa reale, quando è nelle possibilità di gestire il valore del cambio della propria moneta.
Se la politica non è pìù di tanto condizionata nelle sue scelte dagli interessi delle oligarchie finanziarie , nazionali e internazionali ma invece riesce a far prevalere quelle dello sviluppo dell’economia reale ecco che, grazie alla elevata competitività del sistema paese, dovuto a un cambio debole, si sviluppano imprese nuove che si dedicano all’export, quelle esistenti si ingrandiscono fino diventare colossi globali, si crea un indotto locale che ne aumenta ancora la competitività, la nazione si arricchisce e si sviluppa a tassi più o meno elevati o incredibili a seconda di quanto debole è il cambio.
Il beneficio, dapprima riservato a pochi, nel tempo si estende ai molti che sono disposti a mettere il proprio impegno a promuovere lo sviluppo del proprio paese. In seguito il benessere economico raggiunge più o meno quasi tutta la popolazione. Processi che sono stati vissuti da molte nazioni e che hanno loro consentito di raggiungere un livello di benessere medio molto elevato. Non serva fare nomi ben noti ma l’Italia è stata uno dei paesi che ha saputo ben sfruttare la propria competitività fino 15 anni fa.
Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a veri incredibili exploit fra i quali spicca quello della Cina che ha ben pensato di seguire la stessa strada percorsa dal suo vicino, nonché acerrimo nemico, Giappone. La Cina però ha fatto di meglio, mettendo in atto una politica di agevolazioni varie per gli investimenti stranieri, accompagnata dalla promessa che queste sarebbero state durature, perché la competitività del sistema paese sarebbe stata mantenuta ad ogni costo. Anche a costo di regalare ai ricchi occidentali una buona parte dei proventi dell’eccesso di export.
Come lo ha fatto?
Semplicemente con la politica della stabilità del cambio, concretizzatasi nell’aggancio del suo CNY al valore del dollaro a un cambio sostanzialmente fisso e molto basso/debole, del tutto scollegato al potere d’acquisto delle monete nei 2 paesi. La funzione dello USD quale valuta internazionale per gli scambi commerciali ha in pratica tenuto il valore del Renmimbi cinese sottovalutato rispetto a tutte le altre valute, rendendo d’altra parte ipercompetitivo il sistema manifatturiero cinese nel mercato globale.
Tutto ciò, unito alla laboriosità e capacità indubbie dei cinesi a tutti i livelli, a cominciare dai
governanti,hanno determinato l’incredibile sviluppo economico di questo paese degli ultimi 20 anni.
Tutto bene?
Per la Cina per ora sì ma non per tutti.
L’occidente, che si è visto scippare il suo know how senza che nessuno facesse alcunché, sta vedendo progressivamente sparire il proprio sistema manifatturiero nella quasi totale indifferenza e nella colpevole rassegnazione, sta assistendo al suo declino e impoverimento sempre più rapido e inesorabile come un fatto ineluttabile.
L’occidente stenta ancora a capire cosa gli sta succedendo e perché. Per il momento assistiamo all’avvio di dure dispute e conflitti economici fra gli stati occidentali, per scaricare sugli altri gli effetti di questa crisi che ingloberà prima o poi tutti, chi più chi meno.
Queste situazioni, che appaiono assurde e incomprensibili ai più, sono i motivi che spingono per profitto o per la sopravvivenza di un’azienda adelocalizzare. Ma non solo perché ormai, più che di imprese che si spostano altrove, una volta che il know how è stato acquisito da un paese, è il lavoro stesso, la produzione nel suo complesso che si trasferisce da un paese all’altro, con l’apertura di nuove manifatture locali che si creano sulla spinta delle richieste dei mercati ricchi. Gli occidentali in questo sono stati bravissimi, hanno aperto le loro frontiere a ogni sorta di beni e cianfrusaglie prodotte dai paesi a basso costo del lavoro, Cina in primis, non preoccupandosi che questo avrebbe portato allo smantellamento dei propri sistemi manifatturieri e al conseguente impoverimento dei vari paesi.
Gli USA sono proprio mal messi. L’industria manifatturiera in questo paese è già sparita da tempo e con il tempo sparirà anche la capacità di creare nuovi prodotti che resterà appannaggio invece dei paesi che hanno mantenuto e sviluppato la propria economia reale. Altrettanto sta facendo l’Europa finora praticamente noncurante delle sorti delle proprie industrie.
Già, oggi bisogna salvare il sistema finanziario e tutti coloro che ci vivono sopra, magari contribuendo a rendere irreversibile il declino del sistema produttivo occidentale che ogni giorno che passa in certi paesi, fra cui l’Italia, vede chiudere aziende ma non perché il mercato non c’è più ma perché altri competitor, operanti in paesi con costi più bassi, ne sottraggono quote a proprio favore. Questo atteggiamento potrebbe essere definito criminale perché fa danni enormi ed è molto più criminale dell’evasione fiscale e contributiva, la cui lotta contro è un sacrosanto dovere dello stato .
Fallimento
Insomma la delocalizzazione produttiva e la sparizione del lavoro vero portano una nazione a dipendere sempre di più dagli approvvigionamenti dall’estero. Il che vuol dire che la propria bilancia commerciale peggiora sempre di più e che per poter continuare a consumare deve indebitarsi sempre di più.
Fino a quando?
Fino a che ci si accorge che avere credito è sempre più difficile, sempre più costoso, sempre più condizionato a offrire garanzie diverse dalla credibilità ormai perduta. Insomma fino alla fine del sogno di abitare nel paese di bengodi.
E allora che si fa?
Via alle manovre lacrime e sangue e a provvedimenti vari, rivolti al salvataggio del sistema finanziario che determinano un ulteriore impoverimento del sistema paese,finoall’impossibilità di evitarne il fallimento. Per fare un po’ di confusione, che serve a mascherare i problemi veri, si propongono le liberalizzazioni, che di per sé sono anche un fatto positivo ma che alla fine sono solo un modo diverso di spartire una torta, che mantiene sempre la stessa dimensione.
Sembra proprio che in Italia ma non solo dovremo arrivare a tanto, prima di assumere consapevolezza del disastro che è stato combinato in questi ultimi 10-15 anni di asservimento alle nuove teorie sullo sviluppo economico globale, alle moderne teorie monetarie, ai voleri e interessi delle oligarchie finanziarie e dei loro servi colpevoli opportunisti.
Conclusione
Credo che proprio la mancanza di consapevolezza e comprensione del disastro in corso sia l’handicap più forte che ci farà precipitare nel baratro. Peccato, perché di persone che in Italia credono ancora che “E’ la produzione, non il consumo, che stimola l’economia” ce ne sono. Sono queste che possono salvare il nostro paese, non certo quelle che affermano con sicumera che : (Riporto una parte di un’intervista su un periodico di un illustre esperto economista)
Si salvi chi può e auguri che un cigno bianco ci aiuti.
GAOLIN E IL CIGNO BIANCO
5 commenti:
ma lo stipendio in Romania e' 200 300 euro mese ma il costo vita e' come qui in Italia
Analisi perfetta, complimenti Dott. Barrai.
Vorrei al riguardo ricordare la stupidità dei nostri ex politici italiani (ovviamente) nell'aver favorito un sistema di incentivi sul fotovoltaico senza preoccuparsi prima di favorire la creazione in Italia di aziende in grado di produrre i pannelli. Risultato: abbiamo e stiamo pagando milioni di euro ad aziende tedesche e cinesi, leader nel mondo nella produzione di tali pannelli e questo sulle spalle dei consumatori di elettricità italiani che con la componente A3 si stanno letteralmente dissanguando..!
Mauro
Ottimo e condivisibile articolo. Consigliatissimo.
Vincenzo
Egregio dott.Barrai,le sue analisi sono impeccabili ma,contrastano nettamente con i suoi propositi.Lei invita i lettori ad aprire gli occhi sulle cause dell'impoverimento paese e al contempo,organizza cene per delocalizzare aziende italiane,per portare capitali all'estero e per acquistare immobili in altri stati.
Non pensa di contribuire in prima persona alla accelerazione di questo fenomeno?Non sarebbe più costruttivo se,organizzasse delle conferenze presso dei palazzetti dello sport,invitando le maestranze del posto e le associazioni di categoria al fine di risvegliare le coscienze sopite ed organizzare una civile ma sentita protesta.
Ottimo articolo che condivido su tutto tranne che in questa frase "Gli USA sono proprio mal messi. L’industria manifatturiera in questo paese è già sparita da tempo e con il tempo sparirà anche la capacità di creare nuovi prodotti che resterà appannaggio invece dei paesi che hanno mantenuto e sviluppato la propria economia reale."
Vado spesso negli usa e ho moltissimi amici li, quindi conosco bene la situazione economica; è vero non sono messi bene ma non soccomberanno come forse potrebbe fare l'europa, e questo per tre motivi: 1)importano di tutto dalla cina e hanno delocalizzato la produzione fino all'inverosimile ma in quella che è la loro prima industria (tecnologia) il cervello (i processori senza i quali nessun aggeggio eletronico funziona) è prodotto e lo sarà sempre negli stati uniti (per una legge non scritta ma assolutamente vigente). 2)gli stati uniti sono assolutamente autosufficienti dal punto di vista alimentare (ergo gli americani non moriranno di fame e quando il popolo ha lo stomaco pieno è meno propenso alla rivoluzione!) mentre in europa negli ultimi vent'anni anziche favorire lo sviluppo e la crescita delle imprese agroalimentari si incentivava anche con sovvenzioni economiche a non produrre con il risultato di aver distrutto il settore;in Italia poi in una follia pazzesca e delinquenziale si è fatto anche peggio del resto d'europa consentendo, volutamente o incoscientemente lo smantellamento e la svendita di molte nostre aziende alimentari, senza un minimo di difesa (quando sento ragliare il berlusca contro la speculazione finanziaria mi viene il vomito perchè nulla ha fatto contro la vera speculazione di aziende straniere che per quattro soldi si sono portate vie le nostre aziende, vedi parmalat finita ai francesi, mentre era da nazionalizzare).
3)gli stati uniti hanno rìsorse energetiche (petrolio) che non sfruttano, nell'attesa che finisca quello degli altri (che alla fine si ritroveranno della carta in mano cioè i dollari ma non piu risorse!)
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